Claudio Marazzini
Perché e a che scopo si sono scritte le grammatiche italiane. Un confronto con Nebrija
La grammatica, nel periodo a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento, decisivo per la formazione degli strumenti normativi delle lingue moderne, rappresenta un prodotto di speciale interesse, una vera cartina di tornasole per un confronto istruttivo tra la cultura italiana e la cultura europea. Ci si può chiedere se la situazione sia medesima per i due principali strumenti normativi, il vocabolario e la grammatica, o se la situazione di questi due strumenti sia in tutto o in parte diversa. L'Italia, grazie all'Accademia della Crusca, detiene un primato generalmente da tutti riconosciuto nella realizzazione del primo grande vocabolario moderno, un prodotto lessicografico che si differenzia profondamente, per la particolare e complessa elaborazione, oltre che per l'esito, dagli elenchi di vocaboli della tradizione umanistica di uso didattico, tematici o alfabetici, con gli equivalenti al latino annotati in una o in più lingue, quegli stessi elenchi, forma embrionale dei vocabolari (sono del resto essi stessi all'origine del Calepino bilingue e poi plurilingue), a cui diede un ottimo contributo anche Nebrija, a sua volta influenzando le sorti della lessicografia dialettale di area italiana, perché il suo Dictionarium latino-hispanicum, stampato nello stesso anno della Gramatica, in felice accoppiata, fu poi reso "siciliano" dal suo allievo e seguace Cristoforo Scobar, nel 1519-20. È un legame in più con l'Italia: nella lessicografia, non solo nella grammatica.
Si ammette generalmente che il primo grande vocabolario monolingue in Europa fu quello dell'Accademia della Crusca. Naturalmente il pensiero degli studiosi della lingua spagnola corre subito a un'opera importante nella loro tradizione nazionale, il Tesoro de la lengua Castellana, o española di Covarrubias, che uscì nel 1611, un anno prima del Vocabolario della Crusca. Sul filo di lana, sembrerebbe dunque che il primato cronologico del vocabolario debba essere aggiudicato alla Spagna, come quello della grammatica a stampa. Indubbiamente il Tesoro è opera di grande rilievo, ma la mia impressione è che la sua forma sia ancora piuttosto distante dalla tipologia del dizionario moderno, a cui la Crusca diede l'avvio, stabilizzandone il modello. Per esempio, il carattere enciclopedico del Tesoro è ancora piuttosto visibile per la presenza di molti nomi propri posti a lemma, geografici in particolare, ma anche antroponimi come Abdalaciz, Abdala, Abimelech, Alvar, Alvaro. Inoltre la struttura delle voci è molto più libera, mentre la Crusca cercò di raggiungere un'organizzazione sistematica, evitando dunque la possibilità di digressioni e disquisizioni etimologiche che permettevano all'autore una notevole opportunità di intrattenimento del pubblico, dandogli il destro di variare a piacere il contenuto della spiegazione. È ben vero che, rinunciando a questa libertà, il vocabolario acquistava in metodo, anche se poteva al tempo stesso perdere in gradevolezza. Infatti il Tesoro è lettura piacevolissima, probabilmente più di quanto possa esserlo la Crusca, ma la curiosità che il testo suscita può essere interpretata anche in senso limitativo. Così nel giudizio espresso da uno storico della lingua quale il Lapesa. A suo parere, l'opera era un "curioso arsenal de noticias sobre ideas, costumbres y otros aspectos de la vida española de antaño, expuestas ingenuamente al definir las palabras" (Lapesa 2008 [1981]: 351). Il Tesoro, non è difficile ammetterlo, è anche moderno nelle scelte lessicali, visto che accoglie parole come artillero e artilleria, che la Crusca escluse, perché compilò un vocabolario fondato sul rigore (eccessivo, se si vuole) di un corpus, e il corpus fu determinato dalla nota selezione arcaizzante che indispettì per secoli gli avversari dell'Accademia. Un'altra caratteristica che rende la Crusca anticipatrice di una nuova tendenza è la sua natura di progetto collettivo, frutto del lavoro di un'istituzione, non di un singolo compilatore. Dopo la Crusca, sorsero apposite accademie, come quella francese e quella spagnola, che si accollarono appunto il compito di redigere grandi dizionari. Anche in questo si può prendere atto della differenza rispetto al Tesoro.
Veniamo però alla grammatica. La più antica tra quelle italiane è di Leon Battista Alberti, scritta nella prima metà del '400, dunque cronologicamente precoce, e tuttavia mai passata alle stampe; in riferimento alla stampa, come tutti sanno, la prima grammatica di una lingua europea è un'altra: quella di Nebrija, la grammatica della lingua castigliana. Talora questo primato cronologico fu persino accentuato più di quanto meritasse. Nell'edizione critica della grammatica di Nebrija pubblicata nel 1946 a Madrid si trova la seguente considerazione[1].
Que es la primera Gramática del español está fuera de duda, aunque hubieran debido valorar este hecho muchos de los lingüistas románicos contemporáneos del extranjero. Y no lo es menos que precede a todas las gramáticas de las lenguas romances, pues la primera italiana, debida a Bembo, se publicó en 1525. La primera francesa, la de Barclay, redactada en inglés, fué publicada en 1521, siéndole posterior en nueve años la segunda, debida a Palsgrave, desplazadas ambas por la de Meigret, compuesta en francés, y publicada en 1550; la primera portuguesa, debida a Oliveira, no aparece sino en 1536 (Nebrija 1946 [1492], I: XXXIX-XL).
Colpisce la mancata menzione dell'opera di Giovan Francesco Fortunio, che è invece per davvero la prima grammatica italiana a stampa, anteriore a quella di Bembo qui menzionata. In realtà la presentazione di cui abbiamo letto un breve passo non omette del tutto il riferimento al Fortunio. Fortunio non è nominato nel testo, ma è menzionato senza molto spicco in una breve nota a piè di pagina[2] (Nebrija 1946 [1492]: XXXIX, n. 3). La nota, per la verità, pur ricordando brevissimamente che il romanista Gröber aveva segnalato come prima grammatica italiana quella di Fortunio, aveva prima di tutto uno scopo diverso: voleva rilevare l'esistenza di un'opera più antica, quella che chiamiamo comunemente la Grammatichetta vaticana, oggi attribuita all'Alberti, rimasta inedita per secoli, pubblicata da Ciro Trabalza nel 1908 in appendice alla Storia della grammatica italiana. Approfitto dell'occasione per ricordare che la Storia di Trabalza è libro importante, un long-seller ancora oggi non sostituito, ancora oggi la più estesa e dettagliata storia della grammatica italiana. Appunto in appendice a questa Storia era stata pubblicata nel 1908 la grammatichetta, che si presentava anonima, con un problema di attribuzione di peso non indifferente. I curatori dell'edizione critica della grammatica di Nebrija, ricavarono dunque quanto poterono dalla Storia di Trabalza. In ogni modo la grammatichetta anonima, per quanto interessante, non poteva entrare nella graduatoria delle prime grammatiche a stampa delle lingue europee, visto che gli onori della stampa non li aveva mai avuti. Diverso il caso della grammatica di Fortunio, stampata dei 1516, dunque senza dubbio in ritardo rispetto a quella di Nebrija, ma comunque degna di essere menzionata nell'elenco delle prime grammatiche affidate ai tipografi, dunque degna di stare ai primi posti in graduatoria, anche se non in cima al podio. Nel 1946, come abbiamo visto nel passo citato, questo libro sembrava ancora ben poco sconosciuto. Le conoscenze del testo di Fortunio erano allora ancora vaghe, soprattutto all'estero; ma anche in Italia l'autore non aveva incontrato particolare apprezzamento, benché Trabalza lo avesse collocato nello stesso capitolo del Bembo, sotto la categoria del "purismo classico".
Anche la saggistica più recente, quando ha voluto collegare Nebrija al suo retroterra italiano, confrontandolo con i grammatici della nostra lingua, più che a Fortunio, che pure rappresenta la seconda grammatica a stampa di una lingua romanza dopo quella castigliana del 1492, ha fatto riferimento all'Alberti, alla sua Grammatichetta vaticana, a cui nel frattempo è stata assegnata una paternità largamente condivisa dagli studiosi. La Grammatichetta, anonima, scritta probabilmente tra il 1435 (forse il 1438) e il 1441, è stata occasione di un sistematico confronto con il lavoro di Nebrija, nel quadro delle più vivaci tendenze dell'umanesimo italiano, quell'umanesimo che Nebrija stesso poteva avere incontrato a Bologna durante il suo soggiorno nella Penisola. Il confronto internazionale era dunque favorito dal fatto che effettivamente Nebrija aveva soggiornato a lungo in Italia, appunto a Bologna, ospite del Collegio di San Clemente degli Spagnoli[3].
Anche Giuseppe Patota, ben noto storico della lingua italiana, editore della grammatica dell'Alberti, nella sua riedizione francese della Grammatichetta, realizzata sette anni dopo l'edizione italiana uscita nel 1996, estese il confronto, ribadendo le ragioni del legame tra Nebrija e l'Alberti. Dopo avere sottolineato l'importanza del parlato e dell'uso, nel sistema di valori a cui fa riferimento l'Alberti, Patota conclude proprio con il confronto con Nebrija, insistendo sulla presenza nelle due grammatiche, quella italiana di metà Quattrocento e quella castigliana del 1492, delle medesime parole-chiave, costituite dai verbi indicanti l'atto di parola, preziosi per intendere bene il programma grammaticale di entrambi gli autori:
Per tutti questi aspetti, Alberti è molto più vicino a Nebrija e Meigret di quanto non lo siano i grammatici italiani del Rinascimento. Anche per Nebrija, le regole che fissano la lingua devono corrispondere all'uso che se ne fa in virtù dell'assioma così sovente ripetuto "scrivere come si parla e parlare come si scrive". Nella Gramatica de la lengua castellana, l'interesse per la maniera in cui si parla non è certamente minore che l'interesse per il modo di scrivere. A riprova, vi si ritrovano le stesse testimonianze linguistiche della grammatica Della lingua toscana dell'Alberti: l'impiego del verbo dezir (‘dire'), hablar (‘parlare'), pronunziar (‘pronunciare') per introdurre regole ed esempi [traduzione mia] ] (Patota, in Alberti 2003 [1508]: LXIX).
Subito dopo Patota discute la differenza rispetto alla tradizione inaugurata dalle grammatiche di Fortunio e di Bembo, che, al contrario di Alberti, non hanno interesse se non occasionale per la lingua parlata (quando non ne prendono le distanze), e si fondano invece su di un canone di autori, cioè badano alla lingua scritta.
Noi tralasceremo il confronto tra Nebrija e l'Alberti, sia perché già ampiamente sviluppato dagli studiosi che abbiamo citato, sia perché la Grammatichetta, in fin dei conti, resta una riscoperta recente, ma non poteva essere nota a Nebrija, anche se è percorsa dalle medesime istanze tipicamente umanistiche, determinate da una formazione sul latino, che rende appunto la lingua latina il termine di confronto necessario. Cercheremo invece le differenze, non le analogie, e le verificheremo prima di tutto nelle motivazioni che spinsero a scrivere e pubblicare opere grammaticali nella prima metà del Cinquecento italiano.
Perché Fortunio scrisse la sua grammatica, alla quale sapeva bene di dover attribuire una particolare importanza? Sicuramente era fiero del primato, tanto è vero che dichiara di essere "primo volgare grammatico", primo ad essere ‘disceso nel campo', appunto come in una gara (1516: carta 3v). Ovviamente Fortunio non sapeva nulla di Nebrija, e si riferiva alla propria lingua, all'italiano, e questo solo intende quando parla di "volgare". Non ci soffermeremo qui sulla disputa tra Fortunio e Bembo, ma ricordiamo che la disputa ci fu, e si tradusse anche in accuse di plagio, con intervento di sostenitori dell'uno e dell'altro letterato. Bembo, in una lettera, aveva dato notizia di aver intrapreso a scrivere notazioni sulla lingua volgare già nel 1500. C'è chi ha dubitato, autorevolmente, che a questa lettera si debba prestare fede[4]. Certo si tratta di una lettera abbastanza diversa da quelle in cui si discetta di grammatica e si discute tra letterati. Si tratta infatti di una lettera d'amore, assai intensa, che fa parte delle note lettere d'amore del giovane Bembo. La destinataria (peraltro mai nominata) è la nobildonna Maria Savorgnan, con cui Bembo ha una relazione intensa. Nella celebre lettera del 2 settembre 1500, improvvisamente, tra spasimi e schermaglie d'amore, emerge la grammatica dove nessuno se l'aspetterebbe. Improvvisamente, infatti, Bembo passa dai sospiri alle regole:
Ho dato principio ad alcune notazioni della lingua, come io vi dissi di voler fare, quando mi diceste che io nelle vostre lettere il facessi. Per che non aspettate che io vostre lettere offenda con segno alcuno, salvo se io non le offendessi basciandole. Quello che abbiate a dire, che volete che io vi dica, non sapere' io mai dire, né, se io il sapessi, ardirei[5].
Siamo in un clima che ricorda gli Asolani, più che le trattazioni scolastiche. Sembra che l'esercizio di correzione nasca leggendo le lettere d'amore, e su di esse si sviluppi. Del resto queste lettere sono in stile segnato da mirabile eleganza retorica, come si vede anche nel breve passo di Bembo che abbiamo riportato, caratterizzato da varie riprese dei verbi dire e fare nel primo periodo. La lettera d'amore risulta comunque quasi sacra, tale da non tollerare correzioni e postille, per cui la soluzione è appunto un testo parallelo, che offra notazioni di lingua che non turbino la missiva originale, per quanto eventualmente le abbia sollecitate l'amante medesima.
Tornando a Fortunio, questi nel 1509 aveva presentato la richiesta di "privilegio" per pubblicare un libro che dichiarava di aver pronto, fra altre opere a cui accennava in forma sintetica o generica: "composte regule grammaticale de la tersa vulgar lingua cum le sue ellegantie et hortographia"[6]. Nel 1512 una stesura in due libri delle Prose della volgar lingua di Bembo era già in circolazione, manoscritta. Siamo cinque anni prima della stampa delle Regole di Fortunio, e inoltre i primi due libri delle Prose, come è noto, non sono vera ‘grammatica', ma la premessa ideologica e culturale alla teoria linguistica assunta come guida nella scelta della norma migliore. Più tardi Bembo accusò direttamente Fortunio di plagio. Di plagio, anzi di "manifesto furto" si parla anche in una lettera scritta a Bembo da Bologna nel 1517, dunque con il Fortunio fresco di stampa, da tal Andrea Garisendo, un letterato a cui dedicò attenzione il Crescimbeni[7], trascrivendo un suo sonetto, definendolo "assai spiritoso, e bizzarro rimatore; ma nulla culto; e totalmente rilassato dietro a' difetti dello stile di quegli sconci, e malconsigliati tempi", cioè la stagione dell'inizio del Cinquecento. Ebbene, Andrea Garisendo scriveva a Bembo il 19 dicembre, dicendo di aver incontrato a Bologna un "huom da bene", che gli pareva aver "buona cognitione della lingua volgare", e che stava componendo un libro su tale lingua, un volume che "sarà altra cosa che il libro del Fortunio, & credo non dispiacerà a V.S.". Il Garisendo non dice il nome di questo misterioso letterato (Richardson ha supposto che si trattasse di Marcantonio Flaminio, poi autore di un compendio grammaticale del Fortunio), ma riferisce alcune parole che il letterato avrebbe dedicato a Bembo stesso, tali da essere forse a lui gradite. Garisendo riportava dunque alcune frasi piuttosto gonfie e retoriche sulla bellezza della lingua volgare, illuminata da "tre raggi dal Sole scoppianti": i tre raggi erano Dante, Petrarca e Boccaccio, secondo quella che al Garisendo pareva un "bella metafora". Del resto Liburnio aveva parlato di "tre fontane" dell'eloquenza. Garisendo proseguiva con le parole dell'anonimo letterato, che si rivolgeva direttamente alla lingua volgare, "che già con la lingua Romana ti pareggi", e poteva procedere purgata dalla "feccia" e "polita" proprio grazie ai "gastigati regolamenti", appunto le regole grammaticali:
De quali direi esser stato primo datore il giudicioso M. Giovanni Francesco Fortunio, se 'l manifesto furto alla volgar Gramatica del primo di lei svegliatore Bembo delle intere carte fatto non lo mi vietasse. La quale perché forse in brieve colla accusatione verrà a luce, di leggieri mi passo, di tanto solamente faccendo ciascheduno attento; che quello, che essere uccello di Giunone parve, corvo nel vero fue, il quale se pur con sua voce in qualche luogo avrà striduto con modesta castigatione a cantar meglio l'aiuteremo, accioché la voce con l'occhiute piume si confaccia[8].
Più tardi Fulvio Pellegrino Morato accusò invece lo stesso Bembo di aver plagiato il Fortunio. Insomma la rivalità per il primo posto nella grammatica italiana non fu indifferente, ma la posizione di Fortunio è cronologicamente inattaccabile, al di là delle reciproche influenze dei due primi grammatici dell'italiano.
Se si apre la grammatica di Fortunio, si deve dunque prendere atto della fierezza con cui l'autore dichiara di essere stato il primo a realizzare un'opera del genere. Ovviamente, come abbiamo detto, ciò vale solo per la lingua volgare italiana: ma il suo sguardo non è europeo, ed egli dunque per nulla si cura di eventuali precedenti in altre lingue. Questo è il primo dato interessante di cui possiamo prendere atto in questo nostro confronto internazionale. Se poi ci soffermiamo sulle motivazioni del libro, cioè sui motivi che hanno condotto a scrivere le regole, vediamo che la ragione principale è di natura estetica. Fortunio è colpito dall'"armonia" nascosta negli autori che ama leggere, e questi autori sono Dante, Petrarca e Boccaccio. La bellezza di questi autori è tale che certamente deve essere fondata su di un criterio di armonia, e le regole sono appunto il segreto di questa bellezza. Si tratta di un criterio molto diverso da quello che guida Nebrija. Inoltre Fortunio, cacciatore di bellezza, non è un professionista della lingua e della letteratura. Non è un latinista di grande esperienza, come Nebrija. Nebrija è letterato di professione, esperto di latino, dunque conoscitore perfetto della grammatica. In altre sue opere, anzi, rimprovera l'ignoranza dei suoi conterranei, che hanno perduto la chiave della lingua latina e degli autori classici. Per contro, Fortunio è un uomo di legge, e la sua attività di letterato si svolge con passione, senza dubbio, ma a tempo perso, nello spazio libero che gli viene concesso dalla sua professione principale. Lo dichiara esplicitamente:
Soleva io nella mia verde etade, sincerissimi lettori miei, quanto di otioso tempo dallo essercitio mio delle civili leggi mi venia concesso, tanto nella lettura delle volgari cose di Dante, del Petrarca e del Boccaccio, dilettevolmente ispendere (Fortunio 2001 [1516]: carta 2r).
Insomma, è un dilettante prestato alla letteratura; anzi, la letteratura è per lui un divertimento di natura privata, perché le regole grammaticali che ha raccolto non servono per ammaestrare gli altri, ma sono state riordinate per uso assolutamente personale. Ha letto e riletto gli autori, ne ha trovato le regole, ma lo ha fatto "per ammaestramento di sé medesimo". Si può obiettare che questo è un espediente retorico, che in realtà anche Fortunio ambisce a un primato letterario. Senza dubbio può esserci un'esagerazione retorica nella sua insistenza sulla funzione degli amici, i quali lo avrebbero convinto, come egli dice, a rendere pubblici i propri studi. Tuttavia non si può negare, anche tenendo conto della sua biografia, per quello almeno che se ne sa, che il suo lavoro era un altro, cioè quello del magistrato, fino alla carica di "luogotenente" di Ancona, la città dove stampò il libro e dove trovo subito dopo la morte in circostanze misteriose, per omicidio o suicidio. Si è discusso sul significato esatto di quella "luogotenenza", che è stata interpretata come una carica pretorile, ma da Richardson come una magistratura civile di minor grado[9]. Di fatto, però, resta appunto un funzionario dell'amministrazione, che lavora grazie alla sua competenza nelle leggi. Anche in questo, non si può non rimarcare la differenza rispetto a Nebrija, che è letterato puro, abile nell'uso della lingua latina non giuridica, ma squisitamente letteraria e classica.
Dunque la grammatica italiana nasce nelle mani di un dilettante appassionato, che lavora a tempo perso e che legge i classici per antica passione. Anzi, la sua opera rischia di procurargli guai, perché molti avranno da ridire sul fatto che le regole della lingua volgare siano state date da un "huomo di professione molto diversa", cioè appunto non un letterato ma un giurista, e "di loquela alla tosca poco somigliante" (Fortunio 2001 [1516]: carta 2v), perché friulano (se non istriano, come risulta da alcuni documenti). Dunque Fortunio era e si riconosceva nelle condizioni meno favorevoli per portare a temine il compito che si era assunto. Mi pare che la grammatica di Nebrija si presenti al pubblico con una sicurezza di sé ben maggiore.
A questo proposito, si può considerare il destinatario delle prefazioni delle due grammatiche, quella italiana e quella castigliana. Fortunio si rivolge agli "studiosi della regolata volgar lingua", cioè la lingua che è diventata comune tra gli "Italici" dopo che il latino si è corrotto nel contatto con le lingue dei barbari(Fortunio 2001 [1516]: carta 2v). Chi sono questi "studiosi"? Potrebbero esserci tra loro anche i letterati professionisti, ma il termine è di significato più esteso: indica chi ha passione per una cosa, chi vi si dedica con attenzione, chi se ne preoccupa. Il termine, insomma, può essere estero ai dilettanti come lo stesso Fortunio, a coloro che amano la lingua volgare, che ne leggono gli autori, tanto è vero che nel corso della trattazione la considerazione filologica per la miglior lezione sul testo degli autori canonici tornerà più volte, e Fortunio si vanterà di poter dare la migliore interpretazione di molti passi incerti. Assolutamente diverso è il contesto in cui si presenta la grammatica castigliana di Nebrija, dedicata a una regina, non certo ai letterati.
Qui si arriva al nucleo più importante che distingue lo scopo della grammatica castigliana da quella italiana quasi coeva, al di là delle questioni di primato su cui prima ci siamo soffermati. La differenza fondamentale sta nello scopo politico dell'opera di Nebrija, presentato in maniera convincente e necessaria, e assolutamente inesistente nell'opera di Fortunio[10]. La dedica a una regina è il segnale esteriore attraverso il quale la destinazione politica si rende immediatamente visibile. Potremmo aggiungere che questa differenza tra la situazione italiana e quella spagnola emerge anche nel caso del vocabolario, perché il Tesoro di Covarrubias è dedicato al Re, "la Magestad Catolica del Rey Don Felipe III nuestro señor", mentre il Vocabolario della Crusca non porta dediche nel frontespizio (menziona solo i principali privilegi di stampa ottenuti), e la lettera dedicatoria di Bastiano de' Rossi è rivolta a Concino Concini, un fiorentino potente alla corte di Francia (l'ed. del 1623, dopo l'uccisione in tragiche circostanze di Concino Concini, sarà diretta, nuovamente con una lettera firmata da Bastiano de' Rossi, al cardinal Francesco Barberini, nipote di Urbano VIII). Anche il titolo del vocabolario della Crusca è significativo: dopo lunghe discussioni, fu Vocabolario degli Accademici della Crusca, senza menzione quale lingua contenesse l'opera (toscana, fiorentina o altro), mentre il Tesoro di Covarrubias non solo faceva riferimento alla "lengua castellana", ma poteva sancire l'equivalenza di questa designazione a quella ancor più generale, più ‘nazionale', di "española".
Quanto al Fortunio, la destinazione politica è assolutamente assente nella sua grammatica, tanto quanto è fortemente presente in Nebrija, e vedremo poi come sia appena percepibile in un passaggio delle Prose della volgar lingua di Bembo, in maniera comunque assolutamente non paragonabile al peso che riveste nella grammatica castigliana. Qui sta il punto fondamentale. La battuta posta all'inizio del Prologo della grammatica castigliana è assai celebre, sempre da tutti ripetuta: "siempre la lengua fue compañera del imperio". Gli studiosi hanno discusso sul significato del termine "imperio", e da ultimo Maria Rodrigo ha rilevato il valore ‘classicistico' dell'espressione, che si riferisce prima di tutto all'impero romano. Va tuttavia osservato che l'idea del rapporto tra "lengua" e "imperio", cioè tra sviluppo della lingua e potere politico-civile, costituisce il tema fondamentale di tutto il Prologo di Nebrija, che consiste in sostanza in una breve ricapitolazione delle grandi civiltà del passato, per poi indicare nella civiltà spagnola la moderna erede di quel grande processo storico, e giustificare in questo modo la dedica alla regina Isabella di Castiglia. Le civiltà menzionate da Nebrija sono, in maniera rapida e cursoria, quella degli Assiri, degli Indi[11], dei Sicioni[12] e degli Egizi, di cui ammette che abbiamo appena una immagine approssimativa, "sombra de la verdad" (era un quadro in parte ripreso dalla Città di Dio di Agostino), e che tuttavia provava il postulato della lingua compagna del potere. Poi, in maniera più circostanziata, Nebrija passava ai fatti storici di cui, giustamente, dichiarava esserci maggior conoscenza, a partire dalle vicende degli ebrei, che avevano avuto un'importanza reale solo dopo la fuga dall'Egitto, dopo che Mosè ebbe dato reale fondamento alla scrittura in lingua ebraica, usandola per parlare con Dio e con il popolo, e per descrivere la storia della sua nazione. Quanto al greco, era divenuto davvero importante dopo Omero ed Esiodo, ma era cresciuto di peso e di rilievo fino alla monarchia di Alessandro, e poi era entrato in crisi quando il potere politico, anche in Grecia, era passato nelle mani dei Romani, la cui cultura era fiorita soprattutto nel periodo tra Augusto e Antonino Pio. Ecco dunque le grandi civiltà del passato, ciascuna con la propria lingua, e questa lingua fiorisce con la gloria di scrittori e commerci, ma sempre e solo all'ombra del potere politico. Roma era senz'altro l'esempio più significativo che attirava l'attenzione di Nebrija, ma non era il solo, come abbiamo visto, perché il suo scopo era percorrere le civiltà per confermare l'assioma inziale, il postulato teorico del potere politico connesso a quello linguistico. Al termine di questa ricognizione, Nebrija può finalmente ritornare all'attualità, cioè al rapporto tra la politica e la lingua castigliana, la quale cominciò a mostrare la propria forza dal tempo di Alfonso il Saggio, nel XIII secolo, quando il castigliano si estese in Aragona, Navarra e Italia, quest'ultima citata in quanto ben presente fin dai progetti di espansione politico-territoriale di Alfonso X. Subito dopo Nebrija, in un passo famoso e spesso citato, ricorda la vittoria contro i musulmani, cioè la presa di Granada del 1492, seppure in maniera implicita, quando parla "de los enemigos de nuestra fe vencidos por guerra i fuerça de armas" (Nebrija 1946 [1492], I: 8-9). Dunque, con Isabella, si è giunti a una grande "reino i republica de Castilla" (ibid., p. 9), che vedrà crescere le arti della pace, e per prima la lingua, che avrebbe dovuto produrre opere utili e importanti, come quelle delle letterature greca e latina, e prima di tutto opere storiche, perché in mancanza dello sviluppo di una lingua spagnola grande e degna di rammemorare i fatti storici, solo due erano a suo giudizio le possibilità: o sarebbe perita la memoria di quei fatti, o si sarebbe stati costretti a peregrinare tra le lingue straniere per cercare in esse il soccorso che non si trovava in casa. Dunque la lingua era presentata prima di tutto come risorsa nazionale, per tramandare l'autorevolezza della monarchia, inserita a sua volta in un percorso, non solo classico, ma riferito alla cronologia del potere nel mondo, a partire dalle più antiche e mitiche civiltà.
La distanza dalle motivazioni della grammatica italiana è dunque evidente. A parte Bembo, che pensa al perfezionamento delle lettere scritte dalla sua amante Maria Savorgnan, a parte il culto della bellezza a cui fa riferimento Fortunio, anche l'uso della storia è diverso. Bembo non fa ricorso alla cronologia universale, come Nebrija. Si limita a esaminare il passaggio dai Romani al volgare in area romanza, con un occhio molto più attento alle vicende delle lettere piuttosto che a quelle del potere politico, anche se le varie ondate di barbari che hanno provocato la "catastrofe" della civiltà latina hanno evidentemente qualche rapporto con quello che Nebrija aveva chiamato "imperio". Ma il riscatto, per l'Italia, non può essere politico. Fin dall'inizio compare l'aspirazione a definire un linguaggio bello e piacevole, non solo perché tale linguaggio ha il potere di convincere, cioè di "commuovere gli umani animi" (Bembo 1966 [1525]: 74), ma perché la scrittura, che risulta subito importante più del parlato, serve per essere letti "dalle genti, non pur che vivono, ma ancora che viveranno" (Ivi). Questo viene detto nella premessa, e poi si avvia il dialogo: un dialogo, dunque, non un trattato. Anche la scelta della forma differenzia Bembo da Nebrija. Il tema politico ritorna poi ancora una volta, dopo che Federico Fregoso, uno dei personaggi delle Prose della volgar lingua di Bembo, ha descritto le conseguenze dell'incontro tra il latino e le lingue dei barbari invasori dell'impero romano. Siamo dunque all'uso della storia, che, come abbiamo detto, nelle Prose assume come oggetto di indagine un arco cronologico molto più breve rispetto a quello preso in considerazione nella cronologia universale di Nebrija. L'elenco di Bembo, comunque, non si limita alle invasioni "storiche", e non è in ordine cronologico, infatti menziona Francesi, Borgognoni, Tedeschi, Vandali, Alani, Ungheri, Mori, Goti e Longobardi, tutti invasori dell'Italia, nell'ordine che ho detto (vengono solo eliminati i "Saracini", che erano presenti nella stesura del manoscritto vaticano, cioè la prima stesura dell'opera)[13]. Il ricco ma storicamente confuso elenco di barbari invasori fa scattare una delle poche reazioni politiche che si possano rintracciare nelle Prose di Bembo, un passo breve, ma che colpisce per la sua forza innegabile, e sembra ricordare certe invettive di Dante nel De vulgari eloquentia, un'invettiva qui affidata alle parole di un altro personaggio del dialogo, Giuliano de' Medici detto il Magnifico (terzo figlio di Lorenzo il Magnifico):
Deh voglia Idio, - a queste parole traponendosi disse subitamente il Magnifico – che ella, messer Federigo, a più che mai servilmente ragionare non si ritorni; al che fare, se il cielo non ci si adopera, non mostra che ella sia per indugiarsi lungo tempo, in maniera e alla Francia e alle Spagne bella e buona parte de' nostri dolci campi donando, e alla compagnia del governo invitandole, ce ne spogliamo volontariamente a poco a poco noi stessi; mercé del guasto mondo, che, l'antico valore dimenticato, mentre ciascuno di far sua la parte del compagno procaccia e quella negli agi e nelle piume disidera di godersi, chiama in aiuto di sé, contra il suo sangue medesimo, le straniere nazioni, e la eredità a sé lasciata dirittamente in quistion mette per obliqua via (Bembo 1966 [1525]: 87).
Qui ricorre anche il riferimento alla Spagna, perfettamente speculare alla Spagna descritta da Nebrija come potente e in espansione territoriale. A questo punto, per segnare definitivamente la differenza tra gli scopi delle grammatiche italiane della prima metà del Cinquecento e quella di Nebrija, possiamo far riferimento all'ultima funzione della grammatica indicata da Nebrija medesimo, il quale dichiara di aver presentato la grammatica alla Regina Isabella a Salamanca, e di aver ricevuto dalla regina la seguente domanda: a che cosa può servire una grammatica del genere? A che cosa può giovare? La risposta fu suggerita a Nebrija, anzi gli fu "strappata", come egli stesso racconta, dal vescovo di Avila, Hernando de Talavera, che spiegò come la Regina avrebbe presto soggiogato molti popoli e nazioni straniere, e queste avrebbero avuto necessità di imparare lo spagnolo. Tra costoro, Nebrija elencava arabi, biscaglini, navarrini, francesi, italiani (Nebrija 1946 [1492]: 11). La grammatica castigliana nacque dunque anche con ambizione di manuale per stranieri, in una nazione potente che sentiva giunto il momento storico della propria egemonia. La grammatica italiana nacque invece in un contesto in cui, semmai, si poteva sperare che la forza delle lettere e della cultura potesse pareggiare il grande modello latino, come Nebrija stesso aveva pensato per il castigliano, ma, a differenza del castigliano, non si poteva pensare a una forza autonoma della nazione, e tutt'al più si poteva sperare (senza davvero crederci) che la rinascita della lingua si accompagnasse magari, cosa che tuttavia già pareva quasi impossibile, alla crescita della dignità di una nazione in realtà divisa, disposta al tradimento e alla connivenza con gli invasori, e percorsa da nuovi occupanti pronti ad approfittare delle sue debolezze e a far da padroni. La grammatica, anche se sembra incredibile, segnava perfettamente queste differenze.
Referencias bibliográficas
Alberti, Leon Battista. 2003 [1508]. Grammatichetta – Grammaire de la langue toscane. Précédé de Ordine delle Laettére / Ordre des lettres. Èditión critique, introduction et notes par Giuseppe Patota. París: Les Belles Lettres.
Bembo, Pietro. 1560. Delle lettere da diversi re, et principi, et cardinali, et altri huomini dotti, a Mons. Pietro Bembo scritte. Venezia: Fran. Sansovino et Compagni.
Bembo, Pietro. 1739. Opere ora per la prima volta tutte in un corpo unite. Tomo III, Contente le lettere volgari, giuntovi indici copiosi e brevi Annotazioni. Venezia, presso Francesco Hertzhaufer libraio all'insegna di Roma Antica.
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Rodrigo Mora, María. 2012. Nebrija ante Alberti. Arquitecturas romances del arte gramatical. Bolonia: Bologna University Press.
[1] A. de Nebrija, 1946 [1942]. Oggi si può liberamente scaricare l'edizione elettronica fotografica dei due volumi dell'opera in formato PDF: http://arrow.latrobe.edu.au:8080/vital/
access/manager/Repository/latrobe:34570?exact=ss_dateNormalized%3A1946*. La nota in cui si citano Trabalza, Fortunio e la Grammatichetta vaticana è la n. 3 di p. XXXIX.
[2] Nella nostra breve citazione abbiamo omesso il rinvio alle note.
[3] Di recente, il rapporto tra Nebrija e l'Italia è stato oggetto di uno studio monografico: è la struttura portante del bel volume di M. Rodrigo (2012), Nebrija ante Alberti. Arquitecturas romances del arte gramatical. Questo libro fin dal titolo mostra l'evidenza del legame ispano-italico, appunto quello che intercorre tra Alberti e Nebrija.
[4] Cfr. le osservazioni di Dionisotti (1938: 230) riesaminate da Fornara (2017).
[5] In ed. moderna, Bembo (1987 [1492-1507] I: 98), da cui cito. Anche in Bembo (1739, III: 363).
[6] Il testo della richiesta di Privilegio per la stampa, in data 28 novembre 1509, è ora riportato da B. Richardson (2001: IX). Il Privilegio si trova a p. 172 della mirabile raccolta di Privilegi, fondamentale per la storia della stampa, pubblicata da Fulin (1882: 84-212).
[7] Cfr. Crescimbeni (1730, III: 317).
[8] Lettera di A. Garisendo a P. Bembo, da Bologna, il 19 dicembre 1517 (Bembo 1560, cc. 88v-89v).
[9] Cfr. Richardson (2001: XVIII).
[10] La presenza dell'elemento politico nella grammatica di Nebrija era già rilevata da Lapesa, (2008 [1981]): 257).
[11] Per gli Indi, terrei conto di quanto annota Forcellini s. v. Indus: "Indorum nomine aliquando veniunt et Arabes et Persae Indis contermini, itemque Aethiopes".
[12] Quanto ai Sicioni, mi pare che l'idea di Nebrija fosse simile a quella di Sant'Agostino, che nel De civitate Dei (XVI, 17) parla dei tre regni del Mondo che vivevano sotto gli angeli ribelli: "Per idem tempus eminentia regna erant gentium, in quibus terrigenarum civitas, hoc est societas hominum secundum hominem viventium, sub dominatu angelorum desertorum insignius excellebat, regna videlicet tria, Sicyoniorum, Aegyptiorum, Assyriorum. Sed Assyriorum multo erat potentius atque sublimius."
[13] Cfr. Bembo (1966 [1525]: 86). Per l'eliminazione dei "saracini", si veda l'apparato di Bembo, (1966 [1525]: 16).
Perché e a che scopo si sono scritte le grammatiche italiane. Un confronto con Nebrija
La grammatica, nel periodo a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento, decisivo per la formazione degli strumenti normativi delle lingue moderne, rappresenta un prodotto di speciale interesse, una vera cartina di tornasole per un confronto istruttivo tra la cultura italiana e la cultura europea. Ci si può chiedere se la situazione sia medesima per i due principali strumenti normativi, il vocabolario e la grammatica, o se la situazione di questi due strumenti sia in tutto o in parte diversa. L'Italia, grazie all'Accademia della Crusca, detiene un primato generalmente da tutti riconosciuto nella realizzazione del primo grande vocabolario moderno, un prodotto lessicografico che si differenzia profondamente, per la particolare e complessa elaborazione, oltre che per l'esito, dagli elenchi di vocaboli della tradizione umanistica di uso didattico, tematici o alfabetici, con gli equivalenti al latino annotati in una o in più lingue, quegli stessi elenchi, forma embrionale dei vocabolari (sono del resto essi stessi all'origine del Calepino bilingue e poi plurilingue), a cui diede un ottimo contributo anche Nebrija, a sua volta influenzando le sorti della lessicografia dialettale di area italiana, perché il suo Dictionarium latino-hispanicum, stampato nello stesso anno della Gramatica, in felice accoppiata, fu poi reso "siciliano" dal suo allievo e seguace Cristoforo Scobar, nel 1519-20. È un legame in più con l'Italia: nella lessicografia, non solo nella grammatica.
Si ammette generalmente che il primo grande vocabolario monolingue in Europa fu quello dell'Accademia della Crusca. Naturalmente il pensiero degli studiosi della lingua spagnola corre subito a un'opera importante nella loro tradizione nazionale, il Tesoro de la lengua Castellana, o española di Covarrubias, che uscì nel 1611, un anno prima del Vocabolario della Crusca. Sul filo di lana, sembrerebbe dunque che il primato cronologico del vocabolario debba essere aggiudicato alla Spagna, come quello della grammatica a stampa. Indubbiamente il Tesoro è opera di grande rilievo, ma la mia impressione è che la sua forma sia ancora piuttosto distante dalla tipologia del dizionario moderno, a cui la Crusca diede l'avvio, stabilizzandone il modello. Per esempio, il carattere enciclopedico del Tesoro è ancora piuttosto visibile per la presenza di molti nomi propri posti a lemma, geografici in particolare, ma anche antroponimi come Abdalaciz, Abdala, Abimelech, Alvar, Alvaro. Inoltre la struttura delle voci è molto più libera, mentre la Crusca cercò di raggiungere un'organizzazione sistematica, evitando dunque la possibilità di digressioni e disquisizioni etimologiche che permettevano all'autore una notevole opportunità di intrattenimento del pubblico, dandogli il destro di variare a piacere il contenuto della spiegazione. È ben vero che, rinunciando a questa libertà, il vocabolario acquistava in metodo, anche se poteva al tempo stesso perdere in gradevolezza. Infatti il Tesoro è lettura piacevolissima, probabilmente più di quanto possa esserlo la Crusca, ma la curiosità che il testo suscita può essere interpretata anche in senso limitativo. Così nel giudizio espresso da uno storico della lingua quale il Lapesa. A suo parere, l'opera era un "curioso arsenal de noticias sobre ideas, costumbres y otros aspectos de la vida española de antaño, expuestas ingenuamente al definir las palabras" (Lapesa 2008 [1981]: 351). Il Tesoro, non è difficile ammetterlo, è anche moderno nelle scelte lessicali, visto che accoglie parole come artillero e artilleria, che la Crusca escluse, perché compilò un vocabolario fondato sul rigore (eccessivo, se si vuole) di un corpus, e il corpus fu determinato dalla nota selezione arcaizzante che indispettì per secoli gli avversari dell'Accademia. Un'altra caratteristica che rende la Crusca anticipatrice di una nuova tendenza è la sua natura di progetto collettivo, frutto del lavoro di un'istituzione, non di un singolo compilatore. Dopo la Crusca, sorsero apposite accademie, come quella francese e quella spagnola, che si accollarono appunto il compito di redigere grandi dizionari. Anche in questo si può prendere atto della differenza rispetto al Tesoro.
Veniamo però alla grammatica. La più antica tra quelle italiane è di Leon Battista Alberti, scritta nella prima metà del '400, dunque cronologicamente precoce, e tuttavia mai passata alle stampe; in riferimento alla stampa, come tutti sanno, la prima grammatica di una lingua europea è un'altra: quella di Nebrija, la grammatica della lingua castigliana. Talora questo primato cronologico fu persino accentuato più di quanto meritasse. Nell'edizione critica della grammatica di Nebrija pubblicata nel 1946 a Madrid si trova la seguente considerazione[1].
Que es la primera Gramática del español está fuera de duda, aunque hubieran debido valorar este hecho muchos de los lingüistas románicos contemporáneos del extranjero. Y no lo es menos que precede a todas las gramáticas de las lenguas romances, pues la primera italiana, debida a Bembo, se publicó en 1525. La primera francesa, la de Barclay, redactada en inglés, fué publicada en 1521, siéndole posterior en nueve años la segunda, debida a Palsgrave, desplazadas ambas por la de Meigret, compuesta en francés, y publicada en 1550; la primera portuguesa, debida a Oliveira, no aparece sino en 1536 (Nebrija 1946 [1492], I: XXXIX-XL).
Colpisce la mancata menzione dell'opera di Giovan Francesco Fortunio, che è invece per davvero la prima grammatica italiana a stampa, anteriore a quella di Bembo qui menzionata. In realtà la presentazione di cui abbiamo letto un breve passo non omette del tutto il riferimento al Fortunio. Fortunio non è nominato nel testo, ma è menzionato senza molto spicco in una breve nota a piè di pagina[2] (Nebrija 1946 [1492]: XXXIX, n. 3). La nota, per la verità, pur ricordando brevissimamente che il romanista Gröber aveva segnalato come prima grammatica italiana quella di Fortunio, aveva prima di tutto uno scopo diverso: voleva rilevare l'esistenza di un'opera più antica, quella che chiamiamo comunemente la Grammatichetta vaticana, oggi attribuita all'Alberti, rimasta inedita per secoli, pubblicata da Ciro Trabalza nel 1908 in appendice alla Storia della grammatica italiana. Approfitto dell'occasione per ricordare che la Storia di Trabalza è libro importante, un long-seller ancora oggi non sostituito, ancora oggi la più estesa e dettagliata storia della grammatica italiana. Appunto in appendice a questa Storia era stata pubblicata nel 1908 la grammatichetta, che si presentava anonima, con un problema di attribuzione di peso non indifferente. I curatori dell'edizione critica della grammatica di Nebrija, ricavarono dunque quanto poterono dalla Storia di Trabalza. In ogni modo la grammatichetta anonima, per quanto interessante, non poteva entrare nella graduatoria delle prime grammatiche a stampa delle lingue europee, visto che gli onori della stampa non li aveva mai avuti. Diverso il caso della grammatica di Fortunio, stampata dei 1516, dunque senza dubbio in ritardo rispetto a quella di Nebrija, ma comunque degna di essere menzionata nell'elenco delle prime grammatiche affidate ai tipografi, dunque degna di stare ai primi posti in graduatoria, anche se non in cima al podio. Nel 1946, come abbiamo visto nel passo citato, questo libro sembrava ancora ben poco sconosciuto. Le conoscenze del testo di Fortunio erano allora ancora vaghe, soprattutto all'estero; ma anche in Italia l'autore non aveva incontrato particolare apprezzamento, benché Trabalza lo avesse collocato nello stesso capitolo del Bembo, sotto la categoria del "purismo classico".
Anche la saggistica più recente, quando ha voluto collegare Nebrija al suo retroterra italiano, confrontandolo con i grammatici della nostra lingua, più che a Fortunio, che pure rappresenta la seconda grammatica a stampa di una lingua romanza dopo quella castigliana del 1492, ha fatto riferimento all'Alberti, alla sua Grammatichetta vaticana, a cui nel frattempo è stata assegnata una paternità largamente condivisa dagli studiosi. La Grammatichetta, anonima, scritta probabilmente tra il 1435 (forse il 1438) e il 1441, è stata occasione di un sistematico confronto con il lavoro di Nebrija, nel quadro delle più vivaci tendenze dell'umanesimo italiano, quell'umanesimo che Nebrija stesso poteva avere incontrato a Bologna durante il suo soggiorno nella Penisola. Il confronto internazionale era dunque favorito dal fatto che effettivamente Nebrija aveva soggiornato a lungo in Italia, appunto a Bologna, ospite del Collegio di San Clemente degli Spagnoli[3].
Anche Giuseppe Patota, ben noto storico della lingua italiana, editore della grammatica dell'Alberti, nella sua riedizione francese della Grammatichetta, realizzata sette anni dopo l'edizione italiana uscita nel 1996, estese il confronto, ribadendo le ragioni del legame tra Nebrija e l'Alberti. Dopo avere sottolineato l'importanza del parlato e dell'uso, nel sistema di valori a cui fa riferimento l'Alberti, Patota conclude proprio con il confronto con Nebrija, insistendo sulla presenza nelle due grammatiche, quella italiana di metà Quattrocento e quella castigliana del 1492, delle medesime parole-chiave, costituite dai verbi indicanti l'atto di parola, preziosi per intendere bene il programma grammaticale di entrambi gli autori:
Per tutti questi aspetti, Alberti è molto più vicino a Nebrija e Meigret di quanto non lo siano i grammatici italiani del Rinascimento. Anche per Nebrija, le regole che fissano la lingua devono corrispondere all'uso che se ne fa in virtù dell'assioma così sovente ripetuto "scrivere come si parla e parlare come si scrive". Nella Gramatica de la lengua castellana, l'interesse per la maniera in cui si parla non è certamente minore che l'interesse per il modo di scrivere. A riprova, vi si ritrovano le stesse testimonianze linguistiche della grammatica Della lingua toscana dell'Alberti: l'impiego del verbo dezir (‘dire'), hablar (‘parlare'), pronunziar (‘pronunciare') per introdurre regole ed esempi [traduzione mia] ] (Patota, in Alberti 2003 [1508]: LXIX).
Subito dopo Patota discute la differenza rispetto alla tradizione inaugurata dalle grammatiche di Fortunio e di Bembo, che, al contrario di Alberti, non hanno interesse se non occasionale per la lingua parlata (quando non ne prendono le distanze), e si fondano invece su di un canone di autori, cioè badano alla lingua scritta.
Noi tralasceremo il confronto tra Nebrija e l'Alberti, sia perché già ampiamente sviluppato dagli studiosi che abbiamo citato, sia perché la Grammatichetta, in fin dei conti, resta una riscoperta recente, ma non poteva essere nota a Nebrija, anche se è percorsa dalle medesime istanze tipicamente umanistiche, determinate da una formazione sul latino, che rende appunto la lingua latina il termine di confronto necessario. Cercheremo invece le differenze, non le analogie, e le verificheremo prima di tutto nelle motivazioni che spinsero a scrivere e pubblicare opere grammaticali nella prima metà del Cinquecento italiano.
Perché Fortunio scrisse la sua grammatica, alla quale sapeva bene di dover attribuire una particolare importanza? Sicuramente era fiero del primato, tanto è vero che dichiara di essere "primo volgare grammatico", primo ad essere ‘disceso nel campo', appunto come in una gara (1516: carta 3v). Ovviamente Fortunio non sapeva nulla di Nebrija, e si riferiva alla propria lingua, all'italiano, e questo solo intende quando parla di "volgare". Non ci soffermeremo qui sulla disputa tra Fortunio e Bembo, ma ricordiamo che la disputa ci fu, e si tradusse anche in accuse di plagio, con intervento di sostenitori dell'uno e dell'altro letterato. Bembo, in una lettera, aveva dato notizia di aver intrapreso a scrivere notazioni sulla lingua volgare già nel 1500. C'è chi ha dubitato, autorevolmente, che a questa lettera si debba prestare fede[4]. Certo si tratta di una lettera abbastanza diversa da quelle in cui si discetta di grammatica e si discute tra letterati. Si tratta infatti di una lettera d'amore, assai intensa, che fa parte delle note lettere d'amore del giovane Bembo. La destinataria (peraltro mai nominata) è la nobildonna Maria Savorgnan, con cui Bembo ha una relazione intensa. Nella celebre lettera del 2 settembre 1500, improvvisamente, tra spasimi e schermaglie d'amore, emerge la grammatica dove nessuno se l'aspetterebbe. Improvvisamente, infatti, Bembo passa dai sospiri alle regole:
Ho dato principio ad alcune notazioni della lingua, come io vi dissi di voler fare, quando mi diceste che io nelle vostre lettere il facessi. Per che non aspettate che io vostre lettere offenda con segno alcuno, salvo se io non le offendessi basciandole. Quello che abbiate a dire, che volete che io vi dica, non sapere' io mai dire, né, se io il sapessi, ardirei[5].
Siamo in un clima che ricorda gli Asolani, più che le trattazioni scolastiche. Sembra che l'esercizio di correzione nasca leggendo le lettere d'amore, e su di esse si sviluppi. Del resto queste lettere sono in stile segnato da mirabile eleganza retorica, come si vede anche nel breve passo di Bembo che abbiamo riportato, caratterizzato da varie riprese dei verbi dire e fare nel primo periodo. La lettera d'amore risulta comunque quasi sacra, tale da non tollerare correzioni e postille, per cui la soluzione è appunto un testo parallelo, che offra notazioni di lingua che non turbino la missiva originale, per quanto eventualmente le abbia sollecitate l'amante medesima.
Tornando a Fortunio, questi nel 1509 aveva presentato la richiesta di "privilegio" per pubblicare un libro che dichiarava di aver pronto, fra altre opere a cui accennava in forma sintetica o generica: "composte regule grammaticale de la tersa vulgar lingua cum le sue ellegantie et hortographia"[6]. Nel 1512 una stesura in due libri delle Prose della volgar lingua di Bembo era già in circolazione, manoscritta. Siamo cinque anni prima della stampa delle Regole di Fortunio, e inoltre i primi due libri delle Prose, come è noto, non sono vera ‘grammatica', ma la premessa ideologica e culturale alla teoria linguistica assunta come guida nella scelta della norma migliore. Più tardi Bembo accusò direttamente Fortunio di plagio. Di plagio, anzi di "manifesto furto" si parla anche in una lettera scritta a Bembo da Bologna nel 1517, dunque con il Fortunio fresco di stampa, da tal Andrea Garisendo, un letterato a cui dedicò attenzione il Crescimbeni[7], trascrivendo un suo sonetto, definendolo "assai spiritoso, e bizzarro rimatore; ma nulla culto; e totalmente rilassato dietro a' difetti dello stile di quegli sconci, e malconsigliati tempi", cioè la stagione dell'inizio del Cinquecento. Ebbene, Andrea Garisendo scriveva a Bembo il 19 dicembre, dicendo di aver incontrato a Bologna un "huom da bene", che gli pareva aver "buona cognitione della lingua volgare", e che stava componendo un libro su tale lingua, un volume che "sarà altra cosa che il libro del Fortunio, & credo non dispiacerà a V.S.". Il Garisendo non dice il nome di questo misterioso letterato (Richardson ha supposto che si trattasse di Marcantonio Flaminio, poi autore di un compendio grammaticale del Fortunio), ma riferisce alcune parole che il letterato avrebbe dedicato a Bembo stesso, tali da essere forse a lui gradite. Garisendo riportava dunque alcune frasi piuttosto gonfie e retoriche sulla bellezza della lingua volgare, illuminata da "tre raggi dal Sole scoppianti": i tre raggi erano Dante, Petrarca e Boccaccio, secondo quella che al Garisendo pareva un "bella metafora". Del resto Liburnio aveva parlato di "tre fontane" dell'eloquenza. Garisendo proseguiva con le parole dell'anonimo letterato, che si rivolgeva direttamente alla lingua volgare, "che già con la lingua Romana ti pareggi", e poteva procedere purgata dalla "feccia" e "polita" proprio grazie ai "gastigati regolamenti", appunto le regole grammaticali:
De quali direi esser stato primo datore il giudicioso M. Giovanni Francesco Fortunio, se 'l manifesto furto alla volgar Gramatica del primo di lei svegliatore Bembo delle intere carte fatto non lo mi vietasse. La quale perché forse in brieve colla accusatione verrà a luce, di leggieri mi passo, di tanto solamente faccendo ciascheduno attento; che quello, che essere uccello di Giunone parve, corvo nel vero fue, il quale se pur con sua voce in qualche luogo avrà striduto con modesta castigatione a cantar meglio l'aiuteremo, accioché la voce con l'occhiute piume si confaccia[8].
Più tardi Fulvio Pellegrino Morato accusò invece lo stesso Bembo di aver plagiato il Fortunio. Insomma la rivalità per il primo posto nella grammatica italiana non fu indifferente, ma la posizione di Fortunio è cronologicamente inattaccabile, al di là delle reciproche influenze dei due primi grammatici dell'italiano.
Se si apre la grammatica di Fortunio, si deve dunque prendere atto della fierezza con cui l'autore dichiara di essere stato il primo a realizzare un'opera del genere. Ovviamente, come abbiamo detto, ciò vale solo per la lingua volgare italiana: ma il suo sguardo non è europeo, ed egli dunque per nulla si cura di eventuali precedenti in altre lingue. Questo è il primo dato interessante di cui possiamo prendere atto in questo nostro confronto internazionale. Se poi ci soffermiamo sulle motivazioni del libro, cioè sui motivi che hanno condotto a scrivere le regole, vediamo che la ragione principale è di natura estetica. Fortunio è colpito dall'"armonia" nascosta negli autori che ama leggere, e questi autori sono Dante, Petrarca e Boccaccio. La bellezza di questi autori è tale che certamente deve essere fondata su di un criterio di armonia, e le regole sono appunto il segreto di questa bellezza. Si tratta di un criterio molto diverso da quello che guida Nebrija. Inoltre Fortunio, cacciatore di bellezza, non è un professionista della lingua e della letteratura. Non è un latinista di grande esperienza, come Nebrija. Nebrija è letterato di professione, esperto di latino, dunque conoscitore perfetto della grammatica. In altre sue opere, anzi, rimprovera l'ignoranza dei suoi conterranei, che hanno perduto la chiave della lingua latina e degli autori classici. Per contro, Fortunio è un uomo di legge, e la sua attività di letterato si svolge con passione, senza dubbio, ma a tempo perso, nello spazio libero che gli viene concesso dalla sua professione principale. Lo dichiara esplicitamente:
Soleva io nella mia verde etade, sincerissimi lettori miei, quanto di otioso tempo dallo essercitio mio delle civili leggi mi venia concesso, tanto nella lettura delle volgari cose di Dante, del Petrarca e del Boccaccio, dilettevolmente ispendere (Fortunio 2001 [1516]: carta 2r).
Insomma, è un dilettante prestato alla letteratura; anzi, la letteratura è per lui un divertimento di natura privata, perché le regole grammaticali che ha raccolto non servono per ammaestrare gli altri, ma sono state riordinate per uso assolutamente personale. Ha letto e riletto gli autori, ne ha trovato le regole, ma lo ha fatto "per ammaestramento di sé medesimo". Si può obiettare che questo è un espediente retorico, che in realtà anche Fortunio ambisce a un primato letterario. Senza dubbio può esserci un'esagerazione retorica nella sua insistenza sulla funzione degli amici, i quali lo avrebbero convinto, come egli dice, a rendere pubblici i propri studi. Tuttavia non si può negare, anche tenendo conto della sua biografia, per quello almeno che se ne sa, che il suo lavoro era un altro, cioè quello del magistrato, fino alla carica di "luogotenente" di Ancona, la città dove stampò il libro e dove trovo subito dopo la morte in circostanze misteriose, per omicidio o suicidio. Si è discusso sul significato esatto di quella "luogotenenza", che è stata interpretata come una carica pretorile, ma da Richardson come una magistratura civile di minor grado[9]. Di fatto, però, resta appunto un funzionario dell'amministrazione, che lavora grazie alla sua competenza nelle leggi. Anche in questo, non si può non rimarcare la differenza rispetto a Nebrija, che è letterato puro, abile nell'uso della lingua latina non giuridica, ma squisitamente letteraria e classica.
Dunque la grammatica italiana nasce nelle mani di un dilettante appassionato, che lavora a tempo perso e che legge i classici per antica passione. Anzi, la sua opera rischia di procurargli guai, perché molti avranno da ridire sul fatto che le regole della lingua volgare siano state date da un "huomo di professione molto diversa", cioè appunto non un letterato ma un giurista, e "di loquela alla tosca poco somigliante" (Fortunio 2001 [1516]: carta 2v), perché friulano (se non istriano, come risulta da alcuni documenti). Dunque Fortunio era e si riconosceva nelle condizioni meno favorevoli per portare a temine il compito che si era assunto. Mi pare che la grammatica di Nebrija si presenti al pubblico con una sicurezza di sé ben maggiore.
A questo proposito, si può considerare il destinatario delle prefazioni delle due grammatiche, quella italiana e quella castigliana. Fortunio si rivolge agli "studiosi della regolata volgar lingua", cioè la lingua che è diventata comune tra gli "Italici" dopo che il latino si è corrotto nel contatto con le lingue dei barbari(Fortunio 2001 [1516]: carta 2v). Chi sono questi "studiosi"? Potrebbero esserci tra loro anche i letterati professionisti, ma il termine è di significato più esteso: indica chi ha passione per una cosa, chi vi si dedica con attenzione, chi se ne preoccupa. Il termine, insomma, può essere estero ai dilettanti come lo stesso Fortunio, a coloro che amano la lingua volgare, che ne leggono gli autori, tanto è vero che nel corso della trattazione la considerazione filologica per la miglior lezione sul testo degli autori canonici tornerà più volte, e Fortunio si vanterà di poter dare la migliore interpretazione di molti passi incerti. Assolutamente diverso è il contesto in cui si presenta la grammatica castigliana di Nebrija, dedicata a una regina, non certo ai letterati.
Qui si arriva al nucleo più importante che distingue lo scopo della grammatica castigliana da quella italiana quasi coeva, al di là delle questioni di primato su cui prima ci siamo soffermati. La differenza fondamentale sta nello scopo politico dell'opera di Nebrija, presentato in maniera convincente e necessaria, e assolutamente inesistente nell'opera di Fortunio[10]. La dedica a una regina è il segnale esteriore attraverso il quale la destinazione politica si rende immediatamente visibile. Potremmo aggiungere che questa differenza tra la situazione italiana e quella spagnola emerge anche nel caso del vocabolario, perché il Tesoro di Covarrubias è dedicato al Re, "la Magestad Catolica del Rey Don Felipe III nuestro señor", mentre il Vocabolario della Crusca non porta dediche nel frontespizio (menziona solo i principali privilegi di stampa ottenuti), e la lettera dedicatoria di Bastiano de' Rossi è rivolta a Concino Concini, un fiorentino potente alla corte di Francia (l'ed. del 1623, dopo l'uccisione in tragiche circostanze di Concino Concini, sarà diretta, nuovamente con una lettera firmata da Bastiano de' Rossi, al cardinal Francesco Barberini, nipote di Urbano VIII). Anche il titolo del vocabolario della Crusca è significativo: dopo lunghe discussioni, fu Vocabolario degli Accademici della Crusca, senza menzione quale lingua contenesse l'opera (toscana, fiorentina o altro), mentre il Tesoro di Covarrubias non solo faceva riferimento alla "lengua castellana", ma poteva sancire l'equivalenza di questa designazione a quella ancor più generale, più ‘nazionale', di "española".
Quanto al Fortunio, la destinazione politica è assolutamente assente nella sua grammatica, tanto quanto è fortemente presente in Nebrija, e vedremo poi come sia appena percepibile in un passaggio delle Prose della volgar lingua di Bembo, in maniera comunque assolutamente non paragonabile al peso che riveste nella grammatica castigliana. Qui sta il punto fondamentale. La battuta posta all'inizio del Prologo della grammatica castigliana è assai celebre, sempre da tutti ripetuta: "siempre la lengua fue compañera del imperio". Gli studiosi hanno discusso sul significato del termine "imperio", e da ultimo Maria Rodrigo ha rilevato il valore ‘classicistico' dell'espressione, che si riferisce prima di tutto all'impero romano. Va tuttavia osservato che l'idea del rapporto tra "lengua" e "imperio", cioè tra sviluppo della lingua e potere politico-civile, costituisce il tema fondamentale di tutto il Prologo di Nebrija, che consiste in sostanza in una breve ricapitolazione delle grandi civiltà del passato, per poi indicare nella civiltà spagnola la moderna erede di quel grande processo storico, e giustificare in questo modo la dedica alla regina Isabella di Castiglia. Le civiltà menzionate da Nebrija sono, in maniera rapida e cursoria, quella degli Assiri, degli Indi[11], dei Sicioni[12] e degli Egizi, di cui ammette che abbiamo appena una immagine approssimativa, "sombra de la verdad" (era un quadro in parte ripreso dalla Città di Dio di Agostino), e che tuttavia provava il postulato della lingua compagna del potere. Poi, in maniera più circostanziata, Nebrija passava ai fatti storici di cui, giustamente, dichiarava esserci maggior conoscenza, a partire dalle vicende degli ebrei, che avevano avuto un'importanza reale solo dopo la fuga dall'Egitto, dopo che Mosè ebbe dato reale fondamento alla scrittura in lingua ebraica, usandola per parlare con Dio e con il popolo, e per descrivere la storia della sua nazione. Quanto al greco, era divenuto davvero importante dopo Omero ed Esiodo, ma era cresciuto di peso e di rilievo fino alla monarchia di Alessandro, e poi era entrato in crisi quando il potere politico, anche in Grecia, era passato nelle mani dei Romani, la cui cultura era fiorita soprattutto nel periodo tra Augusto e Antonino Pio. Ecco dunque le grandi civiltà del passato, ciascuna con la propria lingua, e questa lingua fiorisce con la gloria di scrittori e commerci, ma sempre e solo all'ombra del potere politico. Roma era senz'altro l'esempio più significativo che attirava l'attenzione di Nebrija, ma non era il solo, come abbiamo visto, perché il suo scopo era percorrere le civiltà per confermare l'assioma inziale, il postulato teorico del potere politico connesso a quello linguistico. Al termine di questa ricognizione, Nebrija può finalmente ritornare all'attualità, cioè al rapporto tra la politica e la lingua castigliana, la quale cominciò a mostrare la propria forza dal tempo di Alfonso il Saggio, nel XIII secolo, quando il castigliano si estese in Aragona, Navarra e Italia, quest'ultima citata in quanto ben presente fin dai progetti di espansione politico-territoriale di Alfonso X. Subito dopo Nebrija, in un passo famoso e spesso citato, ricorda la vittoria contro i musulmani, cioè la presa di Granada del 1492, seppure in maniera implicita, quando parla "de los enemigos de nuestra fe vencidos por guerra i fuerça de armas" (Nebrija 1946 [1492], I: 8-9). Dunque, con Isabella, si è giunti a una grande "reino i republica de Castilla" (ibid., p. 9), che vedrà crescere le arti della pace, e per prima la lingua, che avrebbe dovuto produrre opere utili e importanti, come quelle delle letterature greca e latina, e prima di tutto opere storiche, perché in mancanza dello sviluppo di una lingua spagnola grande e degna di rammemorare i fatti storici, solo due erano a suo giudizio le possibilità: o sarebbe perita la memoria di quei fatti, o si sarebbe stati costretti a peregrinare tra le lingue straniere per cercare in esse il soccorso che non si trovava in casa. Dunque la lingua era presentata prima di tutto come risorsa nazionale, per tramandare l'autorevolezza della monarchia, inserita a sua volta in un percorso, non solo classico, ma riferito alla cronologia del potere nel mondo, a partire dalle più antiche e mitiche civiltà.
La distanza dalle motivazioni della grammatica italiana è dunque evidente. A parte Bembo, che pensa al perfezionamento delle lettere scritte dalla sua amante Maria Savorgnan, a parte il culto della bellezza a cui fa riferimento Fortunio, anche l'uso della storia è diverso. Bembo non fa ricorso alla cronologia universale, come Nebrija. Si limita a esaminare il passaggio dai Romani al volgare in area romanza, con un occhio molto più attento alle vicende delle lettere piuttosto che a quelle del potere politico, anche se le varie ondate di barbari che hanno provocato la "catastrofe" della civiltà latina hanno evidentemente qualche rapporto con quello che Nebrija aveva chiamato "imperio". Ma il riscatto, per l'Italia, non può essere politico. Fin dall'inizio compare l'aspirazione a definire un linguaggio bello e piacevole, non solo perché tale linguaggio ha il potere di convincere, cioè di "commuovere gli umani animi" (Bembo 1966 [1525]: 74), ma perché la scrittura, che risulta subito importante più del parlato, serve per essere letti "dalle genti, non pur che vivono, ma ancora che viveranno" (Ivi). Questo viene detto nella premessa, e poi si avvia il dialogo: un dialogo, dunque, non un trattato. Anche la scelta della forma differenzia Bembo da Nebrija. Il tema politico ritorna poi ancora una volta, dopo che Federico Fregoso, uno dei personaggi delle Prose della volgar lingua di Bembo, ha descritto le conseguenze dell'incontro tra il latino e le lingue dei barbari invasori dell'impero romano. Siamo dunque all'uso della storia, che, come abbiamo detto, nelle Prose assume come oggetto di indagine un arco cronologico molto più breve rispetto a quello preso in considerazione nella cronologia universale di Nebrija. L'elenco di Bembo, comunque, non si limita alle invasioni "storiche", e non è in ordine cronologico, infatti menziona Francesi, Borgognoni, Tedeschi, Vandali, Alani, Ungheri, Mori, Goti e Longobardi, tutti invasori dell'Italia, nell'ordine che ho detto (vengono solo eliminati i "Saracini", che erano presenti nella stesura del manoscritto vaticano, cioè la prima stesura dell'opera)[13]. Il ricco ma storicamente confuso elenco di barbari invasori fa scattare una delle poche reazioni politiche che si possano rintracciare nelle Prose di Bembo, un passo breve, ma che colpisce per la sua forza innegabile, e sembra ricordare certe invettive di Dante nel De vulgari eloquentia, un'invettiva qui affidata alle parole di un altro personaggio del dialogo, Giuliano de' Medici detto il Magnifico (terzo figlio di Lorenzo il Magnifico):
Deh voglia Idio, - a queste parole traponendosi disse subitamente il Magnifico – che ella, messer Federigo, a più che mai servilmente ragionare non si ritorni; al che fare, se il cielo non ci si adopera, non mostra che ella sia per indugiarsi lungo tempo, in maniera e alla Francia e alle Spagne bella e buona parte de' nostri dolci campi donando, e alla compagnia del governo invitandole, ce ne spogliamo volontariamente a poco a poco noi stessi; mercé del guasto mondo, che, l'antico valore dimenticato, mentre ciascuno di far sua la parte del compagno procaccia e quella negli agi e nelle piume disidera di godersi, chiama in aiuto di sé, contra il suo sangue medesimo, le straniere nazioni, e la eredità a sé lasciata dirittamente in quistion mette per obliqua via (Bembo 1966 [1525]: 87).
Qui ricorre anche il riferimento alla Spagna, perfettamente speculare alla Spagna descritta da Nebrija come potente e in espansione territoriale. A questo punto, per segnare definitivamente la differenza tra gli scopi delle grammatiche italiane della prima metà del Cinquecento e quella di Nebrija, possiamo far riferimento all'ultima funzione della grammatica indicata da Nebrija medesimo, il quale dichiara di aver presentato la grammatica alla Regina Isabella a Salamanca, e di aver ricevuto dalla regina la seguente domanda: a che cosa può servire una grammatica del genere? A che cosa può giovare? La risposta fu suggerita a Nebrija, anzi gli fu "strappata", come egli stesso racconta, dal vescovo di Avila, Hernando de Talavera, che spiegò come la Regina avrebbe presto soggiogato molti popoli e nazioni straniere, e queste avrebbero avuto necessità di imparare lo spagnolo. Tra costoro, Nebrija elencava arabi, biscaglini, navarrini, francesi, italiani (Nebrija 1946 [1492]: 11). La grammatica castigliana nacque dunque anche con ambizione di manuale per stranieri, in una nazione potente che sentiva giunto il momento storico della propria egemonia. La grammatica italiana nacque invece in un contesto in cui, semmai, si poteva sperare che la forza delle lettere e della cultura potesse pareggiare il grande modello latino, come Nebrija stesso aveva pensato per il castigliano, ma, a differenza del castigliano, non si poteva pensare a una forza autonoma della nazione, e tutt'al più si poteva sperare (senza davvero crederci) che la rinascita della lingua si accompagnasse magari, cosa che tuttavia già pareva quasi impossibile, alla crescita della dignità di una nazione in realtà divisa, disposta al tradimento e alla connivenza con gli invasori, e percorsa da nuovi occupanti pronti ad approfittare delle sue debolezze e a far da padroni. La grammatica, anche se sembra incredibile, segnava perfettamente queste differenze.
Referencias bibliográficas
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Rodrigo Mora, María. 2012. Nebrija ante Alberti. Arquitecturas romances del arte gramatical. Bolonia: Bologna University Press.
[1] A. de Nebrija, 1946 [1942]. Oggi si può liberamente scaricare l'edizione elettronica fotografica dei due volumi dell'opera in formato PDF: http://arrow.latrobe.edu.au:8080/vital/
access/manager/Repository/latrobe:34570?exact=ss_dateNormalized%3A1946*. La nota in cui si citano Trabalza, Fortunio e la Grammatichetta vaticana è la n. 3 di p. XXXIX.
[2] Nella nostra breve citazione abbiamo omesso il rinvio alle note.
[3] Di recente, il rapporto tra Nebrija e l'Italia è stato oggetto di uno studio monografico: è la struttura portante del bel volume di M. Rodrigo (2012), Nebrija ante Alberti. Arquitecturas romances del arte gramatical. Questo libro fin dal titolo mostra l'evidenza del legame ispano-italico, appunto quello che intercorre tra Alberti e Nebrija.
[4] Cfr. le osservazioni di Dionisotti (1938: 230) riesaminate da Fornara (2017).
[5] In ed. moderna, Bembo (1987 [1492-1507] I: 98), da cui cito. Anche in Bembo (1739, III: 363).
[6] Il testo della richiesta di Privilegio per la stampa, in data 28 novembre 1509, è ora riportato da B. Richardson (2001: IX). Il Privilegio si trova a p. 172 della mirabile raccolta di Privilegi, fondamentale per la storia della stampa, pubblicata da Fulin (1882: 84-212).
[7] Cfr. Crescimbeni (1730, III: 317).
[8] Lettera di A. Garisendo a P. Bembo, da Bologna, il 19 dicembre 1517 (Bembo 1560, cc. 88v-89v).
[9] Cfr. Richardson (2001: XVIII).
[10] La presenza dell'elemento politico nella grammatica di Nebrija era già rilevata da Lapesa, (2008 [1981]): 257).
[11] Per gli Indi, terrei conto di quanto annota Forcellini s. v. Indus: "Indorum nomine aliquando veniunt et Arabes et Persae Indis contermini, itemque Aethiopes".
[12] Quanto ai Sicioni, mi pare che l'idea di Nebrija fosse simile a quella di Sant'Agostino, che nel De civitate Dei (XVI, 17) parla dei tre regni del Mondo che vivevano sotto gli angeli ribelli: "Per idem tempus eminentia regna erant gentium, in quibus terrigenarum civitas, hoc est societas hominum secundum hominem viventium, sub dominatu angelorum desertorum insignius excellebat, regna videlicet tria, Sicyoniorum, Aegyptiorum, Assyriorum. Sed Assyriorum multo erat potentius atque sublimius."
[13] Cfr. Bembo (1966 [1525]: 86). Per l'eliminazione dei "saracini", si veda l'apparato di Bembo, (1966 [1525]: 16).